Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo
La strada verso casa di Ray LaMontange
Anni fa durante una intervista con Glen Hansard, mi disse che i suoi riferimenti musicali corrispondevano alle figure religiose del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Erano, più laicamente, Bob Dylan, Leonard Cohen e Van Morrison, spiegò.
Chiunque abbia visto almeno una volta dal vivo l’artista irlandese si sarà reso conto quanto si ispiri al primo Van Morrison, di cui spesso riprende in concerto dei brani, con quel tipico crescendo vocale e musicale che arriva fino al parossismo più epico. E chi ha ascoltato i suoi dischi avrà notato alcune somiglianze con certe atmosfere intimiste dell’artista canadese scomparso.
Per chi, come me, ha cominciato ad ascoltare musica con il re dei cantautori, Bob Dylan e via via tantissimi altri, oggi è difficile trovare figure analoghe ai grandi autori di canzoni degli anni 60 e 70. Mi tengo stretto allora anche io la mia trinità spirituale, e cioè Glen Hansard, Damien Rice e Ray LaMontagne. Hanno tutti e tre qualcosa in comune, e non solo perché Rice e Hansard sono irlandesi.
In un momento storico dove la grande canzone d’autore sembra finita nel tubo di scarico di una fognatura e quello che ne resta sono nomi improponibile (uno su tutti, Ed Sheeran, patetica imitazione di un songwriter), questi tre uomini sono l’anello di congiunzione con una stagione felice, quella degli anni 70, in cui la voce e il semplice tocco di una chitarra acustica erano il canale di espressione della molteplicità delle sfumature umane e spirituali che portavano in alto, a sfidare il mistero stesso dell’esistenza. Sono figure anomale in questo campionario di canzoni costruite al computer seguendo regole di marketing, che invece di dare scossoni emozionali a chi le ascolta, instupidiscono una generazione dopo l’altra. E sono anche la dimostrazione che fare bella musica non significa necessariamente vendere pochi dischi e rimanere relegati in una angolino. Perché loro di dischi ne vendono tantissimi e riempiono le sale da concerto, a dimostrazione che il cuore dell’uomo aspetta soltanto chi lo faccia battere.
Sono indagatori dell’anima, hanno fatto di quell’incipit di una canzone di Van Morrison il loro motto: “La guarigione è appena cominciata”. Perché un po’ per volta, con le loro canzoni, ci fanno del bene, in una parola ci guariscono.
Dei tre, l’unico, a parte una estemporanea apparizione a inizio carriera, l’unico che non viene ma a suonare in Italia è l’americano Ray LaMontagne.
Di Hansard conosciamo tutto: lo abbiamo visto dal vivo svariate volte, travolgente performer con nell’animo una quota pari di Bruce Springsteen e l’altra del già citato Morrison. Anche Rice è spesso da noi. Cantautore dolente e intimista, più vicino a Cohen, capace di melodie dall’altissimo tasso sofferente ma rassicurante, ha molto in comune con il terzo nome, per il tono vocale e l’amore per gli arrangiamenti minimali, voce, cori, quartetti d’archi. Torneremo su di loro, ma adesso fermiamoci a Ray LaMontagne.
La sua carriera da musicista inizia dopo aver girovagato in vari stati americani, uno dei tanti figli della crisi dei matrimoni d’oggi, quando una mattina la sua sveglia per andare al lavoro (in una fabbrica di scarpe) suona una canzone di Stephen Stills, Treetop Flyer. Ha già diversi anni sulle spalle, non ha mai preso una chitarra sin mano, ma la sua vita cambierà per sempre. Le coordinate della sua cifra musicale saranno chiare sin dall’inizio: Van Morrison, The Band, Neil Young. Chitarra acustica, sezione ritmica ficcante e calda senza eccessi, poche chitarre. E la voce. Un mix di Sam Cooke e del compianto Ted Hawkins, una voce che affonda nelle radici black con uno spiccato senso del soul e dell’R&B, roca e distintiva, vellutata e confortante, come l’odore legnoso di un barile di stagionato bourbon. E melodie che affondano nella immensa tradizione folk nord americana.
Negli anni LaMontagne ha sperimentato molto, dalla psichedelia a certa avanguardia pinkfloydana, significativo di un’anima inquieta sempre alla ricerca.
L’ultimo, recente disco, con un titolo indicativo, Long way home, la lunga strada versocasa, lo vede tornare al punto di partenza, ma con una maturità e una positività nuove: "Trent'anni dopo mi rendo conto che ogni canzone di Long Way Home in un modo o nell'altro rende omaggio al viaggio. I giorni languidi della giovinezza e dell'innocenza. Le innumerevoli battaglie dell'età adulta, alcune vinte, più spesso perse. È stata una strada lunga e dura, e non cambierei un minuto. Mi ci sono volute nove canzoni per esprimere ciò che Townes è riuscito a dire in una sola riga. Immagino di avere ancora molto da imparare".
Come già ai tempi del disco d’esordio, che durava circa 40 minuti per precisa scelta, quella di mantenere i tempi dei vecchi vinili, invece di riempire i cd di ogni canzone possibile, anche quelle che sarebbero state degli scarti, cd che difficilmente ascoltiamo fino in fondo, anche questo disco contiene solo nove canzoni, circa mezz’ora di ascolto. E poi, senza alcuna fatica, lo rimetti dall’inizio. Così facevamo una volta e così i dischi ci rimanevano impressi nella pelle e nel sangue, non erano quegli ascolti di cui non ti rimane più niente. Ricordiamoci sempre che una pietra miliare del rock, Born to run di Springsteen, durava 36 minuti e non aveva bisogno di un solo minuto in più.
Il disco trasuda serenità e positività. C’è il minimo indispensabile anche questa volta: chitarra acustica, sezione ritmica, una chitarra elettrica poco appariscente, la sua armonica, dei fiati in un brano e un coro femminile in altri tre. Poco importa che la ritmica, gli accordi iniziali e l’armonica di And They Called Her California siano identici a Out on the weekend di Neil Young, perché la melodia è invece una struggente eco corale ai tramonti e alle lontananze infinite della vita, del tutto personale. La traccia iniziale potrebbe arrivare dal repertorio di Sam Cooke, con il ricco accompagnamento corale delle Secret Sisters, che esalta il messaggio edificante della canzone con un crescendo irresistibile: viene voglia di ballare. Le loro armonie si intrecciano magnificamente con la voce di LaMontagne, creando un paesaggio sonoro che sembra sia espansivo che intimo. L'interazione tra i diversi strati vocali aggiunge profondità soul alla traccia.
I Wouldn’t Change A Thing (non cambierei una sola cosa, dichiarazione di intenti nei confronti della propria vita, tra errori e sconfitte che non vorrebbe mai cambiare perché tutto concorre a renderci quello che siamo) è puro country rock con echi degli Eagles nelle armonie vocali e quel senso di pacatezza alla luce del tramonto da qualche parte tra Santa Monica e Big Sur (inevitabile pensare allo scomparso in questi giorni JD Souther che di quella cifra artistica fece il suo manifesto). Sottolinea questo panorama musicale la bella pedal steel di Carl Broeblem dei My Morning Jacket.
Se Yearning con quell’incidere cadenzato delle chitarre acustiche che svisano alla ricerca della nota perfetta in piena ambientazione delle settimane astrali di vanmorrisoniana memoria, My Lady Fair invece è il Van Morrison di Moondance, con fiati briosi che ci fanno danzare sotto un cielo stellato.
C’è tanto ancora da ascoltare, ad esempio la bizzarra e gioiosa La de dum, la de da, lo strumentale onirico alla Bruce Cockburn di So Damned Blue ma soprattutto la title track, posta a fine album, una riconciliazione con la vita che riguarda lui ma anche noi.
Come negli anni 70 lo ascoltiamo tutto e lo rimettiamo da capo. Ci ruberà poco tempo, ma è tempo prezioso. Questo disco è un privilegio da ascoltare. Ci fa amare la musica e la vita allo stesso tempo. Ci porta in una casupola di legno fra i boschi del New Hampshire dove è cominciato tutto e ancora più in là, tra le estati infinite della California e le strade piovose di Belfast. Questo disco è un disco perfetto per la fine dell’estate ma non solo. Riscalda il cuore e lo fa sobbalzare e Dio sa se ne abbiamo bisogno.
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