Mark Knopfler

Il lungo viaggio del "geordie man"



È una bella giornata primaverile del 2007, ed è strano vedere un cielo così limpido e tanto sole a Londra. Mi sto incamminando verso un hotel di lusso nella zona nord, uno di quegli hotel posh dove i musicisti rock di fama incontrano i giornalisti. Sono emozionato: sto per incontrare uno dei miei artisti preferiti per un’intervista esclusiva, solo io e lui. Una cosa difficile da ottenere con personaggi così importanti, che di solito preferiscono raggruppare più giornalisti, dato che, comprensibilmente, fare interviste da una vita può essere una delle attività più noiose della loro professione. Bob Dylan, del resto, una volta disse che essere intervistati è noioso come andare a pescare…

Amo Mark Knopfler da quel giorno del 1978, quando entrai in uno dei miei negozi di dischi preferiti. Il proprietario, mentre io scartabellavo i vinili come al solito senza una lira in tasca, si rivolse tutto eccitato a un altro cliente: “Devi ascoltare questo disco! Mi è appena arrivato, è un gruppo inglese fantastico.” Aveva ragione: era l’esordio dei Dire Straits, e tutto il mondo avrebbe presto amato Sultans of Swing e il resto. Ma adesso mi sto recando a intervistare Knopfler per il suo nuovo disco solista, Kill to Get Crimson.

Da quando ha pubblicato il suo primo album senza i Dire Straits, Golden Heart nel 1996, Knopfler si è progressivamente allontanato dal rock. Non che abbia rinunciato ai suoi inconfondibili riff di chitarra, tipicamente “direstraitsiani”, ma con ogni disco si è sempre più dedicato a declinare le sue canzoni verso il folk anglosassone, la musica celtica, il blues o certe atmosfere vagamente country, tipicamente americane.

A proposito di Kill to Get Crimson, uno dei suoi album più folk, nel corso dell’intervista gli dirò che molte canzoni del disco sembrano fatte apposta per essere cantate dalla leggenda del folk inglese Sandy Denny, scomparsa prematuramente. Lui si schermisce, sorride compiaciuto e risponde che no, Sandy era su un livello più alto del suo.

Non ne sono convinto: ogni suo disco solista è straordinario, e Knopfler meriterebbe ancora più riconoscimento.



Mark Knopfler è un simpatico gentleman, vestito con camicia nera e pantaloni marroni. Appare dimesso, quasi con un look da dopo lavoro. È leggermente sovrappeso e la testa quasi rasata. Non ha affatto l’aria di una rock star, ma quella di un signore over 60 rilassato, soddisfatto della sua vita, piacione (non a caso è stato definito “l’uomo tranquillo del rock”). Un piacere parlare con lui.

A fine intervista gli chiederò ovviamente di Bob Dylan, con cui ebbe una straordinaria collaborazione. “Ho sempre amato Bob”, dice con decisione, “da quando lo vidi la prima volta a Newcastle nel 1966”. Wow, penso, che figata. Ovviamente gli chiederò se preferiva la versione acustica di Blind Willie McTell da lui registrata per il disco di Bob Dylan Infidels e che Dylan decise di non includere nel disco, o quella elettrica, apparse su vari bootleg ufficiali e no. Dice che essendo una canzone talmente bella ama entrambe le versioni, evito di chiedergli quanto da uno a dieci si fosse incazzato per l'esclusione del pezzo: certe voci dicono che si incazzò a livello 10 anche perché il produttore del disco era lui ma Dylan fece di testa sua...

Mark Knopfler è un artigiano. I suoi dischi sono meravigliose opere che scaturiscono dal cuore e toccano il cuore dell’ascoltatore. Sono canzoni cinematografiche, piccoli film. D’altro canto lui da giovane faceva il giornalista e ha detto spesso di aver recuperato storie scritte a quel tempo per le sue canzoni. Knopfler racconta storie che sembrano miti e leggende. “Non voglio restringere il campo per nessuno”, disse in un’intervista a Stereophile. “Ogni volta che ho provato a farlo in passato, sembrava che in qualche modo perdessero il loro fascino. Più diventi specifico nel rispondere a ‘Era questo? Era quello?’, sembra che tutto si rimpicciolisca.”

Canzoni post-Straits come Sailing to Philadelphia (il duetto su Charles Mason e Jeremiah Dixon con James Taylor), Boom, Like That (una cronaca dell’espansione del fast-food americano a metà del XX secolo) e Tunnel 13 (un nuovo brano da One Deep River, sulla rapina a un treno nel 1923 nei Monti Siskiyou, in California) ampliano il filo narrativo che Knopfler aveva già tracciato con brani come Romeo and Juliet, Telegraph Road e Brothers in Arms.

Quasi sempre nelle sue canzoni emerge il termine “Geordie”, che indica le persone di Newcastle-upon-Tyne, la città del nord dell’Inghilterra dove è cresciuto (sebbene sia nato a Glasgow, in Scozia). La sua città  appare anche sulla copertina del suo ultimo disco, One Deep River: storie di migrazioni, omicidi, amori infranti, delusioni, povertà. Brevi racconti, ma affascinanti.

Nel corso degli anni, Knopfler si è evoluto da eroe della chitarra con fascia a un acclamato cantautore e osservatore.

Tantissimi suoi brani iniziano con le classiche uilleann pipes della tradizione celtica, il tin whistle e il fiddle. Un brano stupendo come Radio City Serenade sembra quasi scritto da Shane MacGowan, una sorta di continuazione della celebre Fairytale of New York.

Knopfler ama moltissimo anche il country, al punto da aver firmato un disco (e un tour) con la regina del country americano, Emmylou Harris: una collaborazione di grande eleganza.

E ama il blues. L’album Privateering del 2012 è un doppio che contiene molti blues uptempo, accompagnati dall’armonica di Kim Wilson. Ascoltandoli, sembra di essere in un club di Chicago negli anni ’40. The Ragpicker’s Dream è forse il disco più americano, con brani che raccontano di personaggi americani: dal Natale di uno straccivendolo al viaggio di un anziano padre verso Knoxville. Tuttavia, il brano iniziale, Way Aye Man (un’espressione dialettale di Newcastle), critica apertamente Margaret Thatcher, l’odiato ex primo ministro inglese, raccontando degli operai costretti a emigrare in Germania a causa dei suoi licenziamenti.



Knopfler ama sperimentare, esplorando sempre nuove strade: in Down the Road Wherever c’è persino un brano calypso con una sezione fiati. Ma allo stesso tempo sa confezionare pezzi intensi e delicati come Slow Learner, un brano piano jazz in cui la sua voce si avvicina a quella di un crooner. E non ha dimenticato il rock, almeno in Speedway at Nazareeth con un lunghissimo e debordante assolo di chitarra.

E non ha perso nulla della sua capacità di creare piccoli gioielli melodici, come la springsteeniana True Love Will Never Fade. Il suo disco più accattivante in questo senso è lo splendido Shangri-La, che sin dalla copertina è un omaggio al mare californiano e ai “boys and girls” che surfano al tramonto. Un disco che non si riesce a smettere di ascoltare.

Ascoltare i suoi dischi significa immergersi in una dimensione di meraviglioso relax, distacco dalla realtà, suoni perfettamente calibrati e emozioni purissime. Qualcosa di molto raro.

In qualche intervista ha dichiarato di sentirsi oggi prima di tutto un cantautore e poi un musicista. Quando concludiamo l’intervista, però, gli chiedo se, a questo punto della carriera, si senta più soddisfatto quando scrive un buon verso o quando trova un buon riff di chitarra. “Entrambi”, mi risponde con il suo inconfondibile sorriso. E si sente, nelle sue canzoni: versi poetici e il tocco unico della sua chitarra continuano a riecheggiare. 

Come dice il titolo di una delle sue canzoni più belle, ascoltarlo produce Laughs and jokes and drinks and smokes: risate, scherzi, bevute e fumo di sigarette.





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