Dalle lamette all’Hallelujah: Leonard Cohen negli anni dell’ombra e della luce




"Ci demmo appuntamento per ascoltare le sue nuove canzoni. Mi aspettavo che, come l’altra volta, Cohen si sarebbe presentato con la sua vecchia chitarra spagnola, con cui aveva sempre inciso i suoi dischi. Invece rimasi sbalordito: con sé aveva una piccola tastiera elettronica Casio."

Così racconta John Lissauer l’inizio di una nuova era, quel giorno del 1983 in cui Leonard Cohen gli chiese di produrre il suo nuovo disco.

Lissauer non era uno qualunque. Era colui che nel 1974 aveva orchestrato New Skin for the Old Ceremony, il primo vero tentativo del cantautore canadese di circondarsi di un ensemble, di un suono più ricco, più profondo, più orchestrato. Prima di allora, le produzioni di Cohen erano ombre sottili: qualche arco sussurrato, cori femminili eterei, e sopra tutto, la sua voce austera accompagnata da una chitarra maldestra e ostinata. Dischi scuri, spogli, appena accennati. E nemmeno la presenza di un gigante della produzione come Bob Johnston — l’architetto sonoro di Blonde on Blonde e Nashville Skyline di Dylan — riusciva a trovare la chiave per far risuonare davvero quelle canzoni.

Una volta, il proprietario di un teatro in cui Cohen si stava esibendo avvertì un giornalista in visita: "Stai attento, potresti trovare delle lamette nei camerini. Questa musica è da suicidio."

Per tutto il decennio degli anni Settanta, Leonard Cohen visse immerso in una lotta silenziosa contro il suono. Incapace di trovare una veste sonora che lo rappresentasse davvero, arrivò a dichiarare nel 1973, in un’intervista al NME, che avrebbe lasciato la musica.
I suoi primi tre album, sebbene contenessero alcuni dei suoi capolavori assoluti, sono ancora oggi difficili da affrontare: suonati in modo grezzo, registrati con approssimazione, cantati con una voce che rasentava il limite dell’ascoltabile. Eppure, in quella ruvida nudità si annidava il fascino della disperazione più pura. Erano dischi come pelle viva, poesia cruda, eppure percorsi che portavano dritti al bordo dell’abisso.



Nel 1977, ormai logorato dall’incapacità di reinventarsi, e affondato nell’abuso di cocaina e alcol, Cohen si lanciò — forse senza rendersene conto — tra le braccia folli e geniali di Phil Spector, l’uomo dal Wall of Sound, futuro assassino e già allora fantasma del rock. Con lui nacque Death of a Ladies’ Man, un’opera titanica, barocca, ubriaca. Un disco che, per chi scrive, cattura alla perfezione il disfacimento morale e artistico di quel decennio. Le canzoni esplodono in sonorità monumentali, e Cohen, travolto dalla sua stessa fragilità, urla come un'anima in pena. Sulle note di copertina, lui e Spector ringraziano un negozio di liquori. Un testamento di eccessi. Un’esperienza affascinante, ma insostenibile da proseguire.

Poi vennero gli anni Ottanta.
Paradossalmente, mentre molti dei suoi coetanei — Dylan, Neil Young, Lou Reed, i Rolling Stones — sembravano smarrirsi in un decennio che li respingeva, Leonard Cohen rinasce. E lo fa in modo sorprendente, trionfale. Trova finalmente il suono perfetto, e con esso, la sua vera voce.

Lissauer fa un lavoro magistrale in studio. Ma è la voce di Cohen ad aver subito la metamorfosi: "Pensavo fosse colpa dei litri di whiskey che bevevo e della tonnellata di sigarette che fumavo, ma semplicemente la mia voce si era fatta più pesante, più profonda." Così dice lui stesso. Ed è una voce che ammalia. Come diceva una mia amica, è una "bedroom voice" — la voce che una donna vuole sentire quando fa l’amore. Se Sinatra sollevava i depressi, Cohen ora li accoglieva in un abbraccio intimo e sacro, li trasformava, li redimeva.

Grazie a quella piccola tastiera elettronica, Cohen trovò il veicolo perfetto per comporre. Ed è per questo che Various Positions suona così moderno, così in linea con i tempi, eppure mai finto, mai plastificato come tante produzioni coeve. In quel disco, naturalmente, brilla Hallelujah, il brano che molti considerano il suo apice. Eppure, la casa discografica lo respinge, ritenendolo non adatto al mercato americano. Lo pubblicano solo in Europa. Un errore colossale.

Various Positions è un ponte tra il passato e il futuro, un disco in bilico. Ma la svolta vera arriva con I’m Your Man.


Il brano d’apertura, First We Take Manhattan, è un inno apocalittico incalzante, un attacco frontale al mondo, tastiere e suoni elettronici da impaurire. Da lì in poi, il disco non sbaglia un colpo: dalla seducente Ain’t No Cure for Love, alla disperazione elegante di Everybody Knows, fino alla title track — forse la canzone più sensuale che Cohen abbia mai scritto.
E infine, l’apice: Tower of Song. Un gioiello elettro-pop dove Cohen si spoglia di ogni maschera, si racconta tra delirio e preghiera, tra ironia e rivelazione.
È lì, in quella torre immaginaria costruita sopra i secoli della musica, che Cohen si erge — non come una star, ma come un profeta.

Un uomo che ha camminato tra le ombre e ha trovato, nel cuore stesso del silenzio, una nuova voce con cui cantare l’eternità. Da lì in poi non avrebbe più sbagliato un disco, pubblicando un capolavoro dopo l’altro fino alla fine.




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